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Applicazione di tali modelli al patrimonio culturale pubblico
I policy maker di diversi paesi hanno già adottato specifici strumenti e modelli per assistere il settore culturale nella valutazione del proprio grado di maturità digitale; di seguito vengono illustrati gli esempi più significativi ...
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Conclusioni
Gli strumenti di autovalutazione presentati nel capitolo precedente sono stati progettati per consentire alle organizzazioni culturali di misurare in via autonoma il proprio grado di maturità digitale, confrontare le proprie capacità rispetto agli standard di settore e guidare la strategia stessa del processo di trasformazione digitale. Anche per realizzare gli obiettivi enunciati nel PND, sfruttandone le diverse potenzialità, sarà importante elaborare uno strumento che consenta di esaminare il livello di digitalizzazione di ciascuna organizzazione. Il presente allegato, partendo dall’analisi dei principali modelli di maturity assessment e dallo studio condotto sui musei da parte del Politecnico di Milano, ha cercato di evidenziarne le opportunità di applicazione al patrimonio culturale, sottolineando i vantaggi derivanti dall’introduzione di uno strumento tecnico per valutare il grado di maturità digitale degli istituti culturali. Queste considerazioni costituisco dunque un primo orientamento per la progettazione di uno strumento da mettere a disposizione degli istituti culturali italiani, in coerenza con i percorsi di valutazione già sviluppati nei diversi settori disciplinari e organizzativi, per svolgere in autonomia un’auto-valutazione del proprio livello di maturità digitale e pianificare le strategie di crescita e miglioramento nello sviluppo di servizi digitali. ...
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Introduzione al tema e metodologie impiegate
La maturità digitale è definita come “la capacità di un’istituzione di utilizzare, gestire, creare e comprendere il digitale, in modo contestuale (adatto al proprio ambiente e alle proprie esigenze specifiche), olistico (che coinvolge la visione, la leadership, il processo, la cultura e l’organizzazione) e propositivo (costantemente allineato alla missione dell’istituzione)” [1]. La valutazione del grado di maturità digitale di un’istituzione consente di compararlo con quello di realtà consimili e gli strumenti di maturity assessment adottati nel settore culturale, permettono ai professionisti della cultura e alle organizzazioni di comprendere e misurare la propria capacità digitale, stabilendo delle strategie e dei piani di miglioramento. In prima istanza le procedure di maturity assessment sono necessarie per definire il punto di partenza in funzione degli obiettivi da raggiungere, acquisendo la conoscenza delle caratteristiche e dei possibili usi di specifiche tecnologie e soluzioni digitali; inoltre incrementano la consapevolezza delle azioni più efficaci da implementare per reagire agli stimoli indotti dalla trasformazione digitale. L’assessment (“valutazione”) è una metodologia utile per esaminare, attraverso l’analisi dei processi interni, lo stato di maturità digitale di un’organizzazione e la sua capacità di implementare tecnologie abilitanti ed innovazioni organizzative che rendano più efficiente il modello di gestione adottato. Lo strumento del maturity assessment non va inteso come un ulteriore adempimento burocratico ma svolgerà una funzione “orientativa”, utile per affrontare la transizione digitale; intraprendendo singoli percorsi di sviluppo si potrà contribuire alla crescita del grado di maturità settoriale. Finnis, J. (2020). The Digital Transformation Agenda and GLAMs: A Quick Scan Report for Europeana. Culture24 ...
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Premessa
Un elemento fondamentale del processo di progettazione dei servizi è l’adozione di metodologie, indicatori e metriche per l’autovalutazione delle condizioni iniziali, dei progressi registrati nel tempo, nonché dei risultati raggiunti. La capacità di analizzare e comprendere il proprio livello di maturità digitale è determinante per ogni istituto culturale, poiché rappresenta la base conoscitiva su cui fondare il progetto di trasformazione digitale. L’impiego di metodologie, indicatori e strumenti di valutazione della maturità digitale (digital maturity assessment) facilita l’implementazione del processo e consente il monitoraggio dei livelli di attuazione delle misure proposte, raccogliendo dati quantitativi e qualitativi sullo stato di avanzamento e sulla qualità gestionale dei processi di transizione digitale. In questo modo è possibile incentivare – a tutti i livelli organizzativi – processi decisionali guidati da evidenze quantitative (data-driven), capaci di utilizzare dati e indicatori per informare e orientare la trasformazione. Il presente documento, allegato al Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale (PND), inquadra la metodologia di valutazione della maturità digitale degli istituti culturali, descrivendo strumenti e metodi impiegati in diversi contesti; nel testo sono illustrati i principali modelli di digital maturity assessment, con una specifica attenzione a quelli adottati in ambito culturale, con lo scopo di introdurre tali metodologie in vista di una possibile adozione a livello ministeriale e regionale. Ciò consentirà alle istituzioni culturali di comprendere con chiarezza il proprio livello iniziale e governare più efficacemente i processi di transizione digitale ...
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Crediti
Il presente documento è stato prodotto dall’Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale – Digital Library con il contributo di:. Guido Guerzoni, Flaminia Iacobucci, Eliano Lodesani, Vittoria Ravagnolo ...
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Introduzione alla metodologia per la valutazione della maturità digitale degli istituti culturali
Versione in consultazione 2022-2023 ...
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Uno studio condotto sui musei italiani
A livello nazionale, è interessante osservare il recente studio di Agostino e Costantini (2021) [4] in cui è stato sviluppato un quadro metodologico per valutare il livello di trasformazione digitale di un’organizzazione museale. Il quadro di riferimento è stato basato sull’esame della letteratura che esamina le dimensioni, gli indicatori, le metriche e i metodi per la valutazione della trasformazione digitale delle organizzazioni, e presenta una serie di misure di performance che possono essere adottate per capire e valutare come i musei italiani stiano affrontando la trasformazione digitale. Tale sistema di indicatori è stato validato mediante l’applicazione ad un campione di 400 musei italiani – eterogeneo in termini di dimensioni, localizzazione e tipologie di collezioni. Le autrici dello studio hanno proposto un quadro di valutazione composto da cinque dimensioni principali: Persone, Tecnologie, Processi, Clienti/utenti, Strategia e investimenti. Queste dimensioni sono state ulteriormente articolate in sotto-dimensioni misurate attraverso la somministrazione di alcune domande mirate (Tabella 1). Tabella 1. Digital Readiness Index (DRI): quadro metodologico. (Nota: i numeri decimali tra parentesi indicano il peso di ciascuna dimensione e sotto-dimensione nel calcolo del valore dell’indice sintetico). Dimensione. Sotto-dimensione. 1. Persone (0.2). Competenze digitali - Personale specializzato (0.6). Competenze digitali - Accesso alle competenze digitali (0.4). 2. Tecnologie (0.2). Adozione della tecnologia - Presenza della tecnologia (0.5). Adozione della tecnologia - Digitalizzazione della collezione (0.5). Analisi dei dati - Archivi digitali (0.5). Analisi dei dati - Raccolta e conservazione dei dati (0.25). Analisi dei dati - Monitoraggio dei dati (0.25). 3. Processi (0.1). Front office - Processo di fatturazione elettronica (0.6). Front office - Controllo degli accessi (0.4). Back office - Presenza di un sistema di pianificazione delle risorse d’impresa (ERP) (1). 4. Clienti/utenti (0.2). Consapevolezza del cliente - Attività di marketing digitale (0.33). Consapevolezza del cliente - Presenza sui social media (0.33). Consapevolezza del cliente - Presenza nella reputazione dei siti web (0.33). 5. Strategia e investimenti (0.3). Strategia - Strategia digitale (1). Investimenti - Investimenti digitali (0.5). Investimenti - Penetrazione degli investimenti digitali (0.5). La media ponderata dei risultati per dimensione e sotto-dimensione ha supportato lo sviluppo di un indice composito di prontezza digitale (Digital readiness index, DRI) dell’organizzazione, il cui valore è compreso tra 0 (DRI minimo) e 1 (DRI massimo). In particolare, l’applicazione del DRI ai musei italiani ha espresso un valore medio pari a 0,35, rivelando che la digitalizzazione è supportata dalla presenza di tecnologie e strumenti già validi ma che, ciononostante, i musei italiani ancora faticano a integrare processi fluidi e strategie digitali. Entrando nel dettaglio di ciascuna dimensione di analisi (Figura 1), si riportano i risultati emersi:. Persone (presenza di adeguate competenze e capacità digitali tra lo staff): 0,29. Questo risultato si spiega con la scarsa presenza di competenze digitali nei musei, aspetto già riconosciuto sia dai professionisti del settore che dal mondo accademico: nonostante i lavoratori nel settore museale siano esperti di storia e patrimonio culturale, si rileva una grave mancanza di competenze hard, come quelle digitali, che non vengono sufficientemente valorizzate. Tecnologie (impiego di tecnologie digitali e analisi dei dati, connessione Wi-Fi per i visitatori): 0,4. L’analisi dei dati risulta essere l’aspetto più critico: le collezioni e gli archivi vengono generalmente ancora gestiti attraverso sistemi cartacei o non integrati, mentre i dati sui visitatori sono raccolti attraverso strumenti digitali soltanto nel 33% dei casi. Processi (livello di digitalizzazione dei processi interni): 0,21. Rappresenta la dimensione peggiore per i musei italiani: pochissime istituzioni consentono l’acquisto di biglietti online e la maggior parte di loro non utilizza alcun sistema informativo. Clienti/utenti (capacità di coinvolgere il visitatore attraverso canali digitali interattivi): 0,38. Sono pochi i musei che utilizzano i dati e le tecniche di marketing digitale per attrarre nuovi visitatori. Tuttavia, i social network cominciano ad essere utilizzati, dato che il 69% dei musei ha almeno un account sui social, confermando la crescente necessità di utilizzarli come strumenti di comunicazione e interazione con i visitatori. Strategia e investimenti (capacità di attivare una strategia digitale di lungo periodo investendo in progetti di trasformazione digitale): 0,38. Il dato più rilevante è che il 76% dei musei italiani non è dotato di un piano digitale e i livelli di investimento in ambito digitale risultano ancora molto scarsi (si privilegia la comunicazione). Figura 1. Digital Readiness Index (DRI) dei musei italiani. . Le autrici dello studio sul Digital Readiness Index hanno evidenziato, infine, alcune riflessioni sull’importanza di valutare e quantificare la trasformazione digitale a livello organizzativo. La prima riflessione riguarda la necessità di considerare trasversalmente, piuttosto che funzionalmente, le implicazioni della trasformazione digitale: la visione trasversale, difatti, è in grado di facilitare l’adozione di progetti di trasformazione digitale che vanno al di là dei benefici funzionali, nonché di includere un piano di capacità digitali a livello di organizzazione. La seconda riflessione riguarda l’importanza delle pratiche di benchmarking. L’applicazione empirica del quadro metodologico evidenzia l’importanza del benchmarking dei valori di digital readiness per ciascuna dimensione e sotto-dimensione tra le organizzazioni, al fine di identificare le diverse strategie organizzative e gli approcci alla trasformazione digitale. In termini di misurazione delle performance, questo aspetto riflette la necessità di sviluppare ulteriori analisi comparative di pratiche e misure digitali. Debora Agostino, Chiara Costantini, A measurement framework for assessing the digital transformation of cultural institutions: *the Italian case, Meditari Accountancy Research, 2021 ...
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I modelli di maturity assessment applicati al settore culturale in Europa
Si riporta di seguito una tabella di sintesi in cui sono state messe a confronto le diverse “filosofie” di approccio dei tre modelli di maturity assessment per le organizzazioni culturali già sperimentati in Europa evidenziandone vantaggi e svantaggi. Tabella 4. Modelli di maturity assessment: confronto tra i tre casi europei analizzati. Modello. Vantaggi. Svantaggi. Digitalematuriteit. (Belgio). Velocità di compilazione (solo 47 domande). Sito web ben congeniato, user-friendly e in costante aggiornamento. Consente il confronto della propria performance con quella di altre organizzazioni culturali. Per ogni area analizzata viene fornito un consiglio e una selezione di fonti a cui attingere. La suddivisione in 5 aspetti potrebbe risultare più efficace se ciascun aspetto fosse collegato in modo più immediato a una lista di domande. La possibilità di rispondere alle domande da 0 a 100 rende la risposata poco chiara poiché non fornisce una scala per valutare la propria situazione. Le informazioni aggiuntive prodotte, al netto di alcuni valori di benchmark, risultano piuttosto scarse. Prevede vantaggi specifici solo per le organizzazioni che scelgono di creare un account e registrarsi al sito. DEN Focus Model. (Olanda). Assessment rapido. La strutturazione del modello in 4 riquadri, come soluzione grafica, è molto efficace e rende bene l’idea di posizionamento. L’output in forma di “consiglio” è molto immediato. Risulta di più semplice comprensione rispetto al Digital Culture Compass. Questionario strutturato in maniera poco chiara: le domande sulle diverse aree tematiche non si susseguono logicamente ma l’utente deve decidere se completarle, cliccare su un’altra area o sul risultato. L’output in forma di “consiglio” risulta limitato e necessità di informazioni integrative. Rimanda al sito di Digitalematuriteit. ,. il che fa pensare che si dovrebbe ricorrere prima a quest’ultimo. Digital Culture Compass. (UK). Modello più completo dei tre analizzati: oltre allo strumento di auto-valutazione (tracker), fornisce un indice, un codice e una serie di principi da seguire. È ben strutturato e molto dettagliato, risultando onnicomprensivo rispetto ai diversi aspetti di un’organizzazione. Possibilità di scaricare risultati, grafici, e mappe interattive. Risulta di difficile comprensione ad un primo impatto; richiede uno sforzo analitico per poterlo utilizzare al meglio. Non è particolarmente user-friendly. Il procedimento di compilazione è lungo e le “istruzioni per l’utilizzo” risultano molto dettagliate, risultando tuttavia adeguate alla complessità e ricchezza dello strumento. Ciò che i tre casi analizzati hanno in comune è la possibilità per gli istituti culturali di accedere in autonomia allo strumento di autovalutazione e di disporre di tool online per svolgere il percorso di assessment. Entrambe queste caratteristiche si ritengono fondamentali per il successo del metodo. [5]. Finnis, J. (2020). The Digital Transformation Agenda and GLAMs. A Quick Scan Report for Europeana. Culture24. [6]. Nel primo anno di esistenza, il sito web è stato visitato 1.700 volte da 1.275 visitatori e sono stati creati 51 account. Meemoo ha contato 362 sessioni completate, di cui 115 totalmente (con il 19% di utenti registrati) e 247 parzialmente. [7]. https://www.den.nl/actueel/artikelen/460/ruimte-voor-experiment-hoe-technologie-en-artistiek-concept-bij-elkaar-komen-in-het-performance-technology-lab. [8]. https://www.den.nl/actueel/artikelen/461/met-robot-double-door-de-tentoonstelling-the-swarm. [9]. https://www.bhic.nl/english. [10]. Nederlands Dans Theatre (NDT), Dutch National Opera & Ballet (NO&B), International Choreographic Arts Centre Amsterdam (ICK), Rotterdam Scapino Ballet. [11]. Ad esempio, se in una mostra sono stati utilizzati mezzi digitali, l’attività è collocata nel quadrante Creazione. Se l’obiettivo è quello di coinvolgere digitalmente il pubblico in una performance, l’attività rientra invece nel quadrante Esperienza. [12]. Finnis, J. (2020). The Digital Transformation Agenda and GLAMs. A Quick Scan Report for Europeana. Culture24 ...
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Cenni ai principali modelli di maturity assessment utilizzati in ambito aziendale
L’IT Score for CIOs è uno strumento di valutazione della maturità, impiegato per misurare l’efficacia dei modelli operativi IT. In particolare, l’IT Score consente di conoscere: il livello di maturità attuale (per comprendere come la funzione IT o l’azienda nel suo complesso stiano operando), il livello di maturità target (identificato in base alla strategia digitale dell’azienda), la trasformazione della maturità (supporta la pianificazione identificando le azioni implementabili per migliorare i livelli di maturità). [2]. Oltre al DMM di Deloitte, si segnalano altri modelli di Digital Maturity Assessment: Digital Maturity Assessment Tool (DMAT), IBM; Digital Acceleration Index (DAI), BCG; Digital Maturity Assessment Tool (DMAT), Aarhus University; Digital Readiness Survey, Bain. [3]. Oltre al DAMA, si segnalano altri modelli di Data Management Maturity Assessment: Data Management Maturity Model (DMM), CMMI Institute; Data Management Capability Assessment Model (DCAM), EDM Council; Data Governance Council Maturity Model, IBM; Stanford Data Governance Maturity Model, Stanford University”; Enterprise Information Management Maturity Model, Gartner ...
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Struttura del documento
La presente versione del PND #2022-2023 ha l’obiettivo primario di definire un contesto comune d’azione, ponendo le basi attorno a cui consolidare l’ecosistema culturale sul piano teorico, metodologico e operativo; con le successive versioni saranno definite più puntualmente le azioni specifiche da intraprendere su base pluriennale in relazione ai diversi temi e obiettivi. È articolato in tre sezioni, tra loro collegate (Figura 1):. “Strategia”, che definisce il percorso per implementare e conseguire gli obiettivi (cap. 2);. “Linee guida”, quali strumenti operativi che supportano la pianificazione e l’esecuzione delle attività legate alla digitalizzazione del patrimonio e alla trasformazione digitale dei luoghi della cultura (cap. 3). . Figura 1. Schema della struttura del PND ...
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Parole chiave
Accessibilità. Il tema dell’accessibilità, spesso declinato al solo superamento delle barriere architettoniche, cognitive e sensoriali dei luoghi della cultura e dei beni culturali materiali e immateriali, nel contesto del PND è affrontato nella molteplicità delle relazioni che connettono le persone con il patrimonio culturale nella sua multidimensionalità, e nelle molteplici modulazioni che queste relazioni mettono in campo (Cetorelli et al., 2017). In questo senso, il concetto di accessibilità diffusa riguarda: la fruizione del patrimonio culturale pubblico e privato - senza dislivelli sociali e marginalità territoriali; il superamento delle barriere linguistiche e del divario scolastico; il coinvolgimento di diverse fasce di pubblico e target generazionali e multiculturali; l’uso da parte di persone con esigenze di accesso specifiche; la disponibilità di risorse culturali; l’uso e l’accessibilità a lungo termine degli oggetti digitali attraverso l’adozione di nuove strategie di conservazione (approccio cloud); un’adeguata metadatazione attraverso protocolli standard rilasciati in formato aperto. Application Programming Interface (API). Un’interfaccia di programmazione delle applicazioni (API) è un insieme di protocolli, funzioni e/o comandi che i programmatori usano per facilitare l’interazione tra servizi e software distinti; sono dunque interfacce con cui la macchina si relaziona. Le API permettono a un servizio software di accedere ai dati di un altro servizio software senza che lo sviluppatore debba sapere come funziona l’altro servizio; a livello tecnico, esse permettono ad agenti eterogenei di accedere dinamicamente e riutilizzare gli stessi set di dati e flussi di lavoro standardizzati. Attraverso le API i dati possono dunque essere interrogati, estratti, scambiati, arricchiti; integrare e diffondere la conoscenza, invece di limitarsi a catturarla e incapsularla, è l’obiettivo dei moderni sistemi informativi culturali. Questo cambiamento tecnico e intellettuale può essere visto come la «svolta infrastrutturale» nelle Digital humanities (Tasovac et al., 2015) e della trasformazione digitale. Big Data. I big data sono una combinazione di dati strutturati, semi strutturati e non strutturati; possono essere descritti con tre caratteristiche principali:. Un’ampia varietà di tipologie di dati. La velocità con cui molti dati vengono generati, raccolti ed elaborati. Il passaggio da un web informativo a un web più profondamente interconnesso e il conseguente emergere di una grande quantità di dati senza precedenti spesso non strutturati, stanno trasformando il modo in cui creiamo, interpretiamo, valorizziamo, gestiamo, analizziamo e visualizziamo le risorse digitali e di conseguenza anche le risorse e informazioni e contenuti inerenti al patrimonio culturale (Rojas, 2017 e Jocker, 2016). La grande quantità di dati sta rimodellando i modi in cui le istituzioni della cultura selezionano i materiali da raccogliere, conservare e condividere nell’interesse pubblico e quali futuri vengono creati attraverso queste pratiche di raccolta. La crescente trasformazione digitale, unita all’evoluzione tecnologica e allo sviluppo della potenza computazionale, sta plasmando una società cibernetica i cui meccanismi di lavoro sono basati sulla produzione, l’impiego e lo sfruttamento di grandi dati (Kaplan, 2015). Per ciò che concerne i dati della cultura, tuttavia, la nozione di big data è ancora nella sua fase embrionale, e solo negli ultimi anni, si è iniziato a indagare, esplorare e sperimentare l’impiego e lo sfruttamento dei big data e a comprendere le possibili forme di collaborazione e di opportunità basate su di essi. L’uso dei big data all’interno dell’ecosistema della cultura può dare gli strumenti per capire alcune tendenze per cogliere le opportunità di intercettare nuovi pubblici e ottimizzare la pianificazione di progetti facilitando forme di accessibilità. L’analisi dei big data può prevedere le esigenze future e innovative per la creazione di valore del patrimonio e la partecipazione sociale attiva. Cloud. La tecnologia cloud è una soluzione informatica che permette di gestire e processare dati contenuti su richiesta in server remoti. L’espressione cloud computing si riferisce a un nuovo paradigma per la fornitura di infrastrutture informatiche e di architettura di sistemi basati su servizi che può essere alla base dell’ecosistema digitale della cultura (Regalado, 2011). Questa tecnologia comporta lo spostamento della localizzazione di infrastrutture nella rete con l’obiettivo di aumentare la sostenibilità e ridurre i costi per la gestione delle risorse hardware e software, permettendo dunque non solo di accogliere gli oggetti digitali ma di metterli anche in relazione. Cloud può essere tradotto dall’inglese come “nuvola” ed è un modo per poter accedere ai dati molto conveniente, su cui si possono basare risorse di computing configurabili e protocolli di rete, applicazioni e servizi; può essere fornito rapidamente e rilasciato con il minimo sforzo di gestione o interazione dal provider (Mulligan, 2019). In coerenza con gli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, è stata elaborata dal Dipartimento per la trasformazione digitale e dall’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (ACN) la Strategia Cloud Italia (https://innovazione.gov.it/dipartimento/focus/strategia-cloud-italia/). Tale strategia, che ha avviato la migrazione dei dati della Pubblica Amministrazione verso il cloud dei dati nazionale e i servizi digitali, risponde a tre sfide principali: 1. assicurare l’autonomia tecnologica del Paese; 2. garantire il controllo sui dati; 3. aumentare la resilienza dei servizi digitali. Co-creazione. Con il termine “co-creazione” si intende un’attività di progettazione partecipativa, in cui rientrano anche la “co-produzione” e il “co-design”. Non vi è una definizione chiara e univoca di tale termine, sia perché è spesso usato in contesti e discipline differenti, sia perché afferisce al concetto di progettazione partecipativa che fa uso di termini interscambiabili o correlati. Alcuni autori hanno identificato la co-creazione come la composizione di co-produzione e co-progettazione, mentre altri hanno indicato la co-creazione come un particolare caso di co-progettazione. (Dudau et al., 2019, Grönroos 2011, Sanders 2008). Nel contesto del PND, ci si riferisce al processo di co-creazione che si basa sul coinvolgimento attivo degli utenti finali nelle diverse fasi del processo produttivo di un servizio. Si tratta di una “cultura partecipativa” (Uricchio, 2004) in cui il processo di diffondere, condividere e mettere in relazione contenuti è reso possibile dall’attuale rivoluzione digitale e diffusione transmediale (video games, Internet, piattaforme mobile, social networks, etc.), secondo un modello di produzione di contenuti orizzontale e dominato dalle “user generated stories”. Crowdsourcing. Il neologismo, crowdsourcing, è stato introdotto nel 2005 e deriva dalle parole inglesi, crowd (folla) e outsourcing (appalto a terzi), identificando una richiesta aperta di collaborazione a progetti attraverso Internet. Questa pratica collaborativa, oltre ad ottimizzare i costi di produzione, crea meno separazione fra chi è un professionista e chi non lo è. In questo quadro sono state sviluppate diverse piattaforme e progetti che hanno permesso di contribuire alla costruzione di contenuti in rete da parte degli stessi utenti e, come nel caso di Wikipedia, in vari ambiti della cultura. Il crowdsourcing rappresenta uno strumento di partecipazione, e può essere un modo per coinvolgere un pubblico più ampio in attività che sono state tradizionalmente appannaggio degli esperti di settore (Van Hyning, 2019). Queste pratiche portano quindi a nuove modalità di interazione e confronto con il patrimonio culturale e creano le possibilità di apprendere e misurarsi in modo diverso da come siamo stati abituati, coinvolgendo potenzialmente un pubblico più ampio. Infatti, diversi sono i progetti provenienti dalle Digital humanities in cui compiti molto complessi tradizionalmente svolti da studiosi, sono stati affidati a persone non esperte, producendo così un cambio di approccio e di valore ai documenti del patrimonio culturale. Un esempio può essere Transcribe Bentham (http://transcribe-bentham.ucl.ac.uk/td/Transcribe_Bentham), il progetto sviluppato presso l’University College London (UCL) sui manoscritti del filosofo inglese, per il quale è stata richiesta la collaborazione degli utenti nella correzione delle trascrizioni prodotte attraverso l’ausilio di software HTR (vedi voce). Un prerequisito fondamentale per il crowdsourcing è inoltre l’uso del formato della “chiamata aperta” per richiedere il lavoro di una rete di collaboratori. In questi progetti, le istituzioni sono obbligate a trovare una chiave interpretativa completamente diversa di fruizione del patrimonio culturale, in cui l’utente diventa protagonista della stessa trasmissione culturale. Cultura digitale. Il termine “cultura” può essere interpretato in diversi modi e assume diversi significati in base al contesto d’utilizzo. Dal latino colere, “coltivare”, declinato nel participio futuro della lingua latina, per intendere “ciò che diviene”, in senso ampio con la parola “cultura” si intende l’insieme di comportamenti, conoscenze, norme, sistemi di valori, meccanismi di controllo che una società, in tutte le sue componenti, mette in opera per sopravvivere e/o per vivere meglio. Nella sua declinazione digitale, si intende il corpus delle conoscenze e competenze di natura digitale fruite attraverso il Web, la cui accessibilità è strettamente legata alla pervasività delle nuove tecnologie nella società. La cultura digitale comincia a prendere forma a partire dagli anni Sessanta del XX secolo, quando negli Stati Uniti si avviano i primi progetti relativi alla rete internet. Il concetto si sviluppa in relazione al diffondersi delle Information and Communication Technologies (ICT), ovvero alla grande capacità di processare dati e informazioni e alla capacità di muovere e relazionare dati e informazioni attraverso la rete. La cultura digitale si caratterizza per tre elementi: partecipazione, digitalizzazione e riuso dell’informazione (Miller, 2020). Basata su rapporti decentrati dove la trasmissione del sapere avviene nella forma della rete, essa appare come un vero e proprio ecosistema, capace di riformulare i saperi del passato e contemporaneamente di proiettarsi nel futuro; una ‘intelligenza collettiva’ che può essere valorizzata grazie alle nuove tecnologie e ai nuovi media (Lévy, 1996). La cultura digitale è anche connessa alla necessità di preservare l’accessibilità ai diversi formati nel tempo, soprattutto per quelli nativamente digitali, e per questo promuove l’utilizzo di standard nella produzione e archiviazione dei contenuti. Data as a Service. Il Data as a Service (DaaS) è un modello di fornitura e distribuzione delle informazioni in cui i file di dati (inclusi testo, immagini, suoni e video) sono resi disponibili agli utenti attraverso una rete, tipicamente Internet. Il modello utilizza una tecnologia di base fondata sul cloud che supporta i servizi Web e la SOA (architettura orientata ai servizi). Le informazioni DaaS sono memorizzate nel cloud e accessibili attraverso diversi dispositivi. Come tutte le tecnologie “as a service” (aaS), DaaS si basa sul concetto che il suo prodotto di dati può essere fornito all’utente «su richiesta» (Agrawal et al., 2009). L’architettura orientata ai servizi (SOA) e l’uso diffuso delle API hanno reso irrilevante la piattaforma su cui risiedono i dati. Esempi di DaaS includono a titolo esemplificativo i servizi di georeferenziazione, che forniscono dati agli utenti. Dati aperti. I dati o, altri tipi di contenuto, sono aperti se chiunque ha la libertà di usarli, riutilizzarli e ridistribuirli – i dati sono soggetti solo al requisito di attribuire e/o condividere. Questo significa, secondo la Open Knowledge Foundation:. Riutilizzo e ridistribuzione: i dati devono essere forniti a condizioni che consentano il riutilizzo e la ridistribuzione, inclusa la commistione con altri set di dati. Partecipazione universale: tutti devono essere in grado di usare, riutilizzare e ridistribuire. non ci dovrebbero essere discriminazioni contro campi di attività o contro persone o gruppi. Per esempio, restrizioni «non commerciali» che impedirebbero l’uso «commerciale», o restrizioni d’uso per certi scopi (per esempio solo nell’istruzione), non sono permesse (Ziegler, 2020). Digital Library. Il termine “Digital Library”, utilizzato per la prima volta nel 1987, è identificato con una molteplicità di definizioni e punti di vista. La declinazione più usata di Digital Library è legata al dominio delle biblioteche, ma sono comuni anche descrizioni che si riferiscono a progetti dell’intero ecosistema GLAM (Galleries, Libraries, Archives and Museums). Ci sono stati vari tentativi di giungere ad una visione comune, uno tra questi è stato quello della Digital Library Federation (DLF) nel 1998 (“A working definition of digital library”), secondo cui le Digital Library sono organizzazioni che forniscono risorse, incluso il personale specializzato, per selezionare, strutturare, offrire accesso, interpretare, distribuire, preservare l’integrità e assicurare la persistenza nel tempo delle collezioni di oggetti digitali, in modo che siano facilmente disponibili per l’uso e fruibili all’esterno da parte di un insieme di comunità. Questa definizione si è arricchita di nuovi significati con la successiva evoluzione del web e dei cambiamenti tecnologici, dominati dalle relazioni semantiche, dall’interoperabilità e dal riutilizzo delle risorse digitali (Salarelli e Tammaro, 2006). Nelle varie accezioni, si identifica con Digital library il progetto World Digital Library della Library of Congress: le cui collezioni includono varie tipologie di beni traversali all’universo GLAM. In questo contesto si condivide il significato di Digital Library che si riferisce ad una struttura unica e coerente, in cui le risorse digitali sono messe in relazione fra loro in base all’ambito di appartenenza (biblioteche, archivi, musei), alla tipologia di formati (es. immagini, testo, audio, etc.) e alla natura degli oggetti digitali (nativamente digitali o risultati di campagne di digitalizzazione). Questa declinazione di Digital Library supera il concetto di “teca digitale”, visto come un aggregatore di risorse, per abbracciare quello di ecosistema governato da relazioni semantiche, cross-disciplinarietà, interscambio e relazioni, sia fra le risorse stesse, sia fra le risorse e gli utenti finali. Disintermediazione. La rivoluzione digitale ha cambiato radicalmente le modalità di diffusione, fruizione e condivisione della cultura. Le nuove tecnologie non hanno stravolto solo il ritmo della nostra vita quotidiana ma hanno reso possibile la trasformazione del sapere. Ciò implica una diffusione immediata dei contenuti, che sono potenzialmente infiniti, resi disponibili a chiunque abbia accesso a una rete internet. In questo ecosistema digitale la produzione culturale subisce una profonda mutazione: non è più affidata a singoli centri, il cui compito è assicurare la divulgazione di materiale scientificamente certo, ma entra potenzialmente nella sfera di azione di ciascun individuo. Dopo il web 2.0, sviluppatosi a partire dai primi anni 2000, il concetto di autorialità viene messo in discussione e chiunque può produrre e pubblicare contenuti, rendendoli immediatamente accessibili a una comunità di utenti non specialisti. Il mezzo tramite cui accediamo alla fruizione e alla lettura di un bene culturale non è mai neutrale, ma è il riflesso di una determinata cultura, che a sua volta influenza le nostre modalità di apprendimento. Con l’introduzione dei personal computer e, più avanti, della rete, ci siamo abituati a nuove interfacce, nuove forme di documenti storici e nuovi meccanismi di produzione e distribuzione, che stanno progressivamente sostituendo le normali procedure degli enti e del mercato culturale. I nuovi canali hanno portato al fenomeno della disintermediazione: dietro a questo termine vi è l’idea che «gli strumenti di rete consentano agli utenti di svolgere autonomamente tutta una serie di attività che normalmente richiedevano figure di mediazione» (Roncaglia, 2010, p. 170). Ecosistema digitale. Il termine ecosistema ha diversi significati a seconda delle declinazioni d’uso. Si parla di ecosistema naturale in riferimento ad una comunità che svolge interazioni, flussi e scambi in un equilibrio dinamico e che si evolve continuamente nel contesto circostante. Tale termine è spesso usato anche nella sua declinazione “digitale”, per descrivere un fenomeno che si è avviato con le prime campagne di digitalizzazione e che è esploso con lo sviluppo del Web 2.0, la diffusione di dispositivi mobile e la cross-medialità (Marinelli, 2020). Come in natura, anche nell’ecosistema digitale si creano “ambienti” complessi in cui entità diverse tra loro per origine, struttura, funzionamento e scopo, risultano interdipendenti all’interno di una infrastruttura (organizzativa, logica o semantica). Caratteristiche predominanti dell’ecosistema digitale sono (Rosati, 2010):. Gli utenti: essi sono parte dell’ecosistema e contribuiscono attivamente alla sua costruzione o ri-mediazione. L’utente (sia esso autore, fruitore, produttore e/o consumatore), partecipa attivamente al processo produttivo stabilendo nuove relazioni fra items/contenuti (aggregatori, social network, etc.), suggerendo nuove proposte e collaborando al processo di produzione (wiki, blog, community, etc.). L’architettura: essa è dinamica, aperta ed estendibile. Da un lato aggrega (o ri-aggrega) contenuti che fisicamente risiedono altrove e che sono stati concepiti in modo indipendente. Dall’altro, il ruolo attivo degli utenti-intermediari rende tale architettura continuamente in divenire, aperta a continue manipolazioni non prevedibili. L’ibridazione: l’ecosistema accoglie differenti domini (fisico, digitale, misto), entità (informazioni, oggetti, persone) e media. La dimensione orizzontale: in queste architetture, la dimensione orizzontale – ovvero la correlazione fra elementi - prevale su quella verticale, che invece fa riferimento alla subordinazione gerarchica fra gli oggetti propria delle tassonomie tradizionali. All’interno di questa struttura, aperta e mobile, i modelli gerarchici lasciano spazio alla correlazione spontanea, estemporanea e multidimensionale degli utenti-intermediari. Il design dei processi: la progettazione non è più incentrata sul singolo elemento (contenuti, prodotti, servizi) ma sulla rete degli elementi. All’interno dell’ecosistema digitale cambia il modo in cui le risorse culturali vengono create, cercate, trovate, analizzate ed elaborate, risultando sempre più disponibili in modalità “diffusa” e partecipata. All’interno di questo scenario qualunque artefatto culturale (prodotto, informazione, servizio) si muove all’interno di un sistema complesso in cui ogni elemento intrattiene fitte relazioni con altri elementi del sistema, e come tale è concepito e fruito, trasformando l’esperienza di fruizione finale. Edutainment. Il termine Edutainment, coniato nel 1973 dal documentarista Bob Heyman, è un lemma composto dalla crasi di due sostantivi: education, che si riferisce alla fase educativa e di apprendimento, ed entertainment, che connota invece il carattere di divertimento e di svago (Cervellini et al., 2011). Questo approccio è stato inizialmente utilizzato come formula classica nella produzione di video-game educativi che si basano sulle teorie dell’apprendimento. Il termine è stato in seguito declinato nell’ambiente dell’educazione e considerato come un ramo dell’e-learning che permetteva di apprendere nozioni scolastiche ed extrascolastiche in modo ludico, attraverso contenuti formativi multimediali resi disponibili attraverso supporti informatici (Valentino et al., 2004). Nel corso dei decenni, per la duttilità che questo termine ha in numerosi contesti d’utilizzo, vi sono state associate numerose altre definizioni: a un primo accostamento al settore dell’educazione scolastica è seguita l’estensione a ogni forma di intrattenimento che abbia al contempo lo scopo di far acquisire conoscenza. Attualmente, l’Edutainment si riferisce a tutte le attività volte a integrare due obbiettivi della comunicazione culturale, quali “apprendimento” e “divertimento” (Ippoliti et al., 2011, p.49), tra cui il patrimonio culturale. Diverse Istituzioni museali e luoghi della cultura hanno adottato il tema dell’Edutainment quale forma di intrattenimento ed educazione, con l’obiettivo di promuovere una diversa forma di partecipazione, basata sull’economia dell’esperienza, e stimolare la fruizione da parte di pubblici eterogenei per età e formazione. Infosfera. Col termine infosfera (“informazione” e “sfera”), nella filosofia dell’informazione, si intende la globalità dello spazio delle informazioni e di qualsiasi sistema in grado di interagire con esso; l’habitat finale per la mente umana, generato dalle tecnologie digitali, in cui gli utenti si trovano immersi e condizionati dalle logiche di influenza degli algoritmi di funzionamento. Pertanto, essa include sia il cyberspazio (Internet, telecomunicazioni digitali) sia i mass media classici (Amicucci 2021, Peyron 2019). Il filosofo etico Luciano Floridi ha definito l’infosfera come «lo spazio semantico costituito dalla totalità dei documenti, degli agenti e delle loro operazioni», dove per «documenti» si intende qualsiasi tipo di dato, informazione e conoscenza, codificata e attuata in qualsiasi formato semiotico; per «agenti», qualsiasi sistema in grado di interagire con un documento indipendente (ad esempio una persona, un’organizzazione o un robot software sul web); per «operazioni» qualsiasi tipo di azione, interazione e trasformazione che può essere eseguita da un agente e che può essere presentata in un documento (Floridi 2017, Floridi 2020). Secondo il filosofo Maurizio Ferraris l’infosfera è uno spazio di pura informazione, ma questa non è che la minima parte di ciò che ci circonda; l’infosfera poggia su una “docusfera”, ossia su documenti che registrano le azioni umane senza necessariamente portare informazioni, e quest’ultima a sua volta poggia su una biosfera, ossia sul mondo della vita (Ferraris, 2021). Secondo questa visione, quella che noi concepivamo come infosfera è in realtà una docusfera, cioè un gigantesco oceano fatto di documenti e questi documenti sono l’accumulo di tutti gli atti dell’umanità depositati nel web. La sfida che ci aspetta nell’attuale processo di trasformazione digitale dei beni culturali non sarà l’innovazione tecnologica ma la gestione della complessità, la governance del digitale. Knowledge as a Service. Fornire i dati della conoscenza come servizio (KaaS), non è la stessa cosa del Software come servizio (SaaS) anche se entrambi sono basati sulla tecnologia cloud. KaaS fornisce la conoscenza giusta alla persona giusta in un contesto preciso e al momento giusto tramite diversi dispositivi. Il cloud computing fornisce risorse informatiche su richiesta come servizio, consentendo un uso flessibile delle tecnologie dell’informazione e, oltre ai tradizionali servizi di cloud computing (software, piattaforma e infrastruttura come servizi), c’è un concetto emergente che integra le organizzazioni della conoscenza e la gestione della conoscenza attraverso tale tecnologia (Chrysikos e Ward, 2014). Licenza d’uso. L’ultima fase della filiera di realizzazione di un oggetto digitale è la sua pubblicazione e nel suo successivo riuso. Il modo in cui vengono possiamo riutilizzare i dati vengono indicati dalle licenze. Le licenze sono contratti che dichiarano i diritti di utilizzo che rimangono al licenziatario e “concedono la facoltà di utilizzo di un’opera o di altri materiali protetti” (Orlandi et al., 2021). Alcuni esempi di licenze aperte sono: Creative Commons (CC), Open Government Licence (OGL), Open Data Commons (ODC), Italian, Open Data License (IODL); un esempio di licenza aperta a livello statale Ethalab è stata prodotta e distribuita dal dipartimento interministeriale francese. Machine-to-machine. L’espressione machine-to-machine è nata in campo industriale per definire processi di controllo in cui le macchine aiutano a gestire le attrezzature. In informatica, si intende una tecnologia che collega dispositivi in rete per scambiare informazioni, eseguire azioni automaticamente o fornire servizi (Verma et al., 2016). Maturità digitale. La maturità digitale (digital maturity) è definita come “la capacità di un’istituzione di utilizzare, gestire, creare e comprendere il digitale, in modo contestuale (adatto al proprio ambiente e alle proprie esigenze specifiche), olistico (che coinvolge la visione, la leadership, il processo, la cultura e l’organizzazione) e propositivo (costantemente allineato alla missione dell’istituzione)” (Finnis, 2020). Nel caso specifico degli istituti culturali, la valutazione del grado di maturità digitale (maturity assessment) consente di comprendere e misurare la propria capacità digitale, stabilendo delle strategie e dei piani di miglioramento in funzione degli obiettivi di trasformazione digitale. Modelli. Il termine modello può assumere diversi significati a seconda del contesto. I modelli possono essere: le strutture con cui si rappresentano e si formalizzano, nell’ambiente digitale, gli oggetti del patrimonio culturale nella loro riproduzione dall’analogico; il modo in cui vengono ridisegnati nella struttura di un sistema più ampio delle tecnologie che lo accompagnano nella realizzazione; i modelli di fruizione che vengono offerti all’utente per coinvolgerli e catturarne l’attenzione; i modelli gestionali del lavoro che richiedono competenze trasversali e ibride (Faioli, 2018). Dunque, il concetto di modello può essere declinato non soltanto per ciò che pertiene il digitale, l’aspetto informatico o di scienze dell’informazione, ma anche per quanto concerne l’organizzazione del lavoro, la formazione, l’organizzazione della conoscenza e dei servizi creati agli utenti. Nelle Digital humanities, il concetto di modellizzazione rappresenta una delle attività principali di questo campo disciplinare e può essere inteso come un processo creativo e di formalizzazione di un ragionamento o di rappresentazione di un dominio di interesse (McCarty, 2005 – Flanders e Jannidis, 2015). Il modello concettuale permette l’interpretazione e la restituzione della conoscenza (Ciula et al., 2018). Questo modello, che precede generalmente il modello dei dati, si basa sempre su un’interpretazione di cui dovrebbe farsi carico un esperto di dominio e su cui si instaurano le fondamenta di un quadro metodologico ampio di campi disciplinari molto diversi. Nel campo informatico, i modelli includono diverse attività di architettura del software (ma anche dell’hardware), il modo di organizzazione delle informazioni e di disegni di sistemi. Possiamo includere a questa panoramica generale: la modellizzazione dei dati, di scenari, orientata verso il flusso dei dati o approcci che riguardano l’architettura software (applicazioni, infrastruttura di rete, gestione dei dati, etc.). Nativamente digitale. I documenti che hanno origine in una forma digitale vengono chiamati in inglese born digital - e non sono una riproduzione di beni analogici. I materiali nativamente digitali sono ormai al centro del dibattito odierno sia per la raccolta e la gestione ma anche per le problematiche che sussistono ad archiviare tale materiale. In genere la mole dei documenti nativi digitali aumenta e l’obsolescenza di hardware e software sembra rendere questo materiale ancora più fragile. La definizione di un oggetto born digital include diverse tipologie di documenti digitali e di archivi, che possono essere sia archivi personali sia di istituzioni della cultura (Jaillant, 2022). Gli archivi nativamente digitali comprendono un vasto materiale che include documenti informatici, fotografie, interviste audio, video creativi o di documentazione, informazioni di eventi, materiale di riproduzioni digitali pregresse, copie di siti e di social network. Un esempio di archivio di documenti digitali di scrittori contemporanei in Italia è PAD (Pavia Archivi Digitali) (Weston e Carbé, 2015). Open Access. L’Open Access si afferma come movimento ufficiale, con una sua definizione e una programmazione di tattiche e strategie di azione, a partire dal 2001 con la Conferenza di Budapest, organizzata dall’Open Society Institute (OSI), seguita nel 2002 dalla Budapest Open Access Initiative (BOAI), che ne segna l’atto di nascita ufficiale. Il documento scaturito come dichiarazione conclusiva dell’incontro contiene una prima definizione di contributo ad accesso aperto e l’individuazione delle due vie principali dell’open access. Per «accesso aperto» alla si intende la disponibilità libera su Internet pubblica, permettendo a qualsiasi utente di leggere, scaricare, copiare, distribuire, stampare, cercare o collegare i testi completi di questi articoli, strisciarli per l’indicizzazione, passarli come dati al software, o usarli per qualsiasi altro scopo legale, senza barriere finanziarie, legali o tecniche diverse da quelle inseparabili dall’accesso a Internet stesso (Orlandi et al., 2021). L’unico vincolo alla riproduzione e alla distribuzione, e l’unico ruolo del copyright in questo campo, dovrebbe essere quello di dare agli autori il controllo dell’integrità del loro lavoro e il diritto di essere adeguatamente riconosciuti e citati. Paesaggio culturale. Il termine Paesaggio culturale identifica un sistema di valori connotato dalla relazione fra beni culturali, cittadini/comunità e contesti fisici/virtuali. Il campo determinato da tali relazioni consente di superare lo storico isolamento degli oggetti culturali nelle istituzioni di conservazione, per intercettare nuovi pubblici e promuovere nuovi significati, anche di natura sociale. L’ordinamento italiano ha storicamente ben definito la natura individuale dei beni: antichità, monumenti, belle arti, cose, bellezze naturali, ecc. (Parpagliolo L., 1913). L’attenzione riservata alle istituzioni destinate a contenerle e/o a tutelarle è sempre stata relativamente secondaria. Basti pensare alla faticosa gestazione di una nozione standardizzata di museo, che il nostro Paese sta ancora inseguendo (D.M. 113/2018 sul Sistema Museale Nazionale) [24]. Dalla Convenzione di Faro (2005) in poi (Gualdani A., 2020), l’interesse delle istituzioni internazionali è ulteriormente slittato verso i contesti, mettendo in luce la natura fluida e negoziale (su base “comunitaria”) delle azioni formali deputate ad intercettare i processi di patrimonializzazione. ICOM, nel 2014, con la Carta di Siena (perfezionata a Cagliari nel 2016), ha tentato d’interpretare l’impianto di Faro, mediandone l’impatto con la “tradizione” italiana. Patrimonio culturale digitale. Per Patrimonio culturale digitale si intende l’insieme di oggetti digitali prodotti dalla modellizzazione di dati informativi o dalla organizzazione di contenuti nativamente digitali, per conseguire obiettivi più avanzati di conoscenza, attraverso lo sviluppo del potenziale relazionale che ne connota la disseminazione. La disponibilità di tali oggetti nell’ambito di un ecosistema che li valorizzi, insieme all’uso o il riuso degli stessi in forma creativa, contribuiscono alla formazione, al pari dei beni materiali e immateriali, del patrimonio culturale (Bertini et al., 2020). I dati grezzi e le riproduzioni digitali non costituiscono di per sé elementi di valore culturale, se non latamente. Essi lo diventano solo attraverso una forma elaborata e organizzata, quella degli oggetti digitali, in grado d’interagire con altre simili e di produrre nella relazione elementi connotativi patrimoniali, ritenutati rilevanti e quindi selezionati dal punto di vista culturale e sociale. Rispetto alla patrimonializzazione dei beni tradizionali, imperniata sul riconoscimento formale da parte di istituzioni, la patrimonializzazione degli oggetti digitali, derivando dalle relazioni e non dalle cose, trae la sua legittimazione dalla capacità d’interpretare una qualità o un bisogno di senso non episodico o puntuale, ma radicato in un’esperienza di conoscenza, da parte di una comunità, più strutturale e identitaria. Processo di patrimonializzazione. Per processo di patrimonializzazione si identifica l’insieme delle azioni, promosse anche su istanze sociali, di tipo culturale, tecnico-scientifico e giuridico-amministrativo attraverso le quali un qualsiasi oggetto, materiale, immateriale o digitale, viene considerato degno di sopravvivere al deperimento naturale per essere conservato nel tempo come testimonianza di civiltà. La patrimonializzazione è un processo intenzionale che interessa, fin dalle origini, oggetti destinati a perdere gli originari attributi funzionali per assumere uno statuto nuovo, all’interno del perimetro definito dal valore culturale (Hartog, 2021, Fabre, 2013). La patrimonializzazione in realtà non è irreversibile: così come è entrata a far parte del patrimonio, può uscirne per i più vari motivi. Lo studio dei percorsi d’inclusione e di esclusione toccano ambiti diversi, fra i quali quelli del potere simbolico, dei paradigmi culturali, delle istituzioni, della gestione/destinazione delle risorse, della partecipazione/mobilitazione delle comunità, dell’efficacia della tutela e della conservazione (Balzani, 2007). Processo end-to-end. Il concetto di end-to-end fa riferimento a una logica secondo cui si analizzano i processi dall’inizio fino alla loro conclusione, in maniera trasversale rispetto all’assetto organizzativo dell’azienda, superando così la frammentazione in “silos” creata dell’organizzazione per funzioni. Relazione. L’ambiente digitale, e in particolare il web, sono il luogo in cui si manifesta un ecosistema basato su molteplici relazioni e scambi di dati, di reti, utenti e risorse digitali interconnesse “tanto eterogenee quanto ramificate” (Tomasi, 2022). Le tecnologie e gli standard del web attuale hanno contribuito a creare nuove forme di rappresentazione delle informazioni e dei documenti storici (siano essi analogici o nativamente digitali), offrendo la capacità di avere più espressività degli oggetti digitali e di mettere in relazione sempre diversa le informazioni. L’utente, interagendo, manipolando e associando secondo un proprio criterio le risorse digitali, ne ridefinisce il contesto, che appare così arricchito da nuove prospettive di senso e stratificazione di significati. Questo insieme di relazioni sta così cambiando sia la produzione e fruizione del patrimonio culturale, sia l’accesso alle informazioni, sempre più accessibili nello spazio digitale. Risorsa digitale. Le risorse digitali possono essere definite come materiali che sono stati concepiti e creati digitalmente oppure ottenuti convertendo materiali analogici in un formato digitale. Quando si parla di risorsa digitale semantica, si tratta di un processo in cui alcune entità (documenti, contenuti web, servizi) sono ritracciabili o ricercati con caratteristica specifica del loro significato in un certo dominio della conoscenza umana (Tomasi, 2022). Servizi. I servizi rappresentano attività svolte indirettamente attraverso beni economici, allo scopo di soddisfare bisogni, e sono generalmente definiti come «beni immateriali e istantanei che si possono consumare in presenza del cliente, da cui sono fisicamente inseparabili» (Dizionario di Economia e Finanza, 2012). I servizi, intesi come output di una attività, possono essere definiti quindi come «una prestazione o un complesso di prestazioni realizzate, di natura più o meno intangibile che normalmente, ma non necessariamente, hanno luogo nell’interazione tra il cliente e fornitore del servizio» (Zuffada, 2011). In particolare, le principali caratteristiche che distinguono i servizi dai prodotti sono:. Congiunzione spazio-temporale dei processi di produzione e di consumo. Non trasferibilità nel tempo e nello spazio. Partecipazione degli utenti. Eterogeneità. Impossibilità di essere tenuti in magazzino. Il termine “servizi” viene utilizzato nel PND in vari contesti e può assumere significati molto diversi. Possono essere individuate categorie che delineano delle caratteristiche comuni a seconda della funzionalità e del contesto digitale. In campo informatico, un servizio può essere considerato come un componente hardware, software o architetturale. Questi possono dunque rispondere a diverse esigenze come operazioni di back-end, di esposizione dei dati (come ad esempio API), o di creazione di applicazioni per l’utente: dalle piattaforme di crowdsourcing al servizio di prenotazione dei biglietti, etc. Silos di dati. Con l’espressione silos di dati si intende una componente isolata di un sistema informativo che non condivide i dati, le informazioni e/o i processi con le altre componenti del sistema. I componenti di un’architettura a silos (o monolitica) sono integrati in un blocco compatto di codice, per cui la modifica anche di un solo componente può incidere sull’intera infrastruttura di base. Questo comporta problemi di manutenibilità e sostenibilità: ogni aggiornamento appesantisce la base del codice e un singolo componente dipende molto spesso dall’intera applicazione; o altri problemi legati alla poca flessibilità della gestione dei dati quali, ad esempio, il malfunzionamento o la scarsa performance di un solo componente può mettere a rischio il funzionamento di tutto il sistema applicativo. Un silo di dati si verifica ogni volta che un sistema di dati è incompatibile o poco integrato con altri sistemi di dati. Questa incompatibilità può verificarsi a tre livelli architetturali: tecnico, applicativo, dei dati in sé. È già stato dimostrato che le scelte alla base della modellazione sono la causa principale dei problemi di integrazione tra dati e, di conseguenza, la maggior parte dei sistemi di gestione sono incompatibili tra loro a partire dallo strato di base, quello della architettura dei dati stessi (O’Neill e Stapleton, 2022). I silos impediscono la condivisione dei dati, la possibilità di accederne e di riutilizzarli scoraggiando così il lavoro collaborativo e le incongruenze. Sistema federato. Per sistema federato ci si riferisce a un tipo di sistema di gestione di basi di dati che integra più database autonomi preesistenti, che possono essere geograficamente decentrati e conservati in DBMS eterogenei, in un unico sistema. Alla base del sistema federato (multi-database) vi è un server in grado di ricevere richieste di query e distribuirle ad origini dati remote (Atzeni et. al, 2002). Le tecniche per la gestione di basi di dati federate devono tenere conto delle eterogeneità di sistemi e applicazioni, consentendo uno scambio dei dati che superi le differenze di rappresentazione dei vari sistemi e permetta una opportuna integrazione, conversione e riconciliazione dei dati fra un’applicazione e l’altra. Un database federato può essere ad accoppiamento libero, che richiede quindi l’accesso ad altri componenti del database, ad accoppiamento stretto, che utilizza processi indipendenti per lavorare in un sistema federato, o un database blockchain, che gestisce le transizioni finanziarie e di altro tipo (Heimbigner et al., 1985). Smart Contract. Un “contratto intelligente” è un accordo tra due persone o entità sotto forma di codice informatico programmato per essere eseguito automaticamente. L’idea è stata proposta nel 1996 da Nick Szabo, un pioniere della crittografia, che ha definito lo smart contract come un insieme di contratti virtuali con protocolli associati per farli rispettare (Mohanta et al., 2018). Il protocollo Bitcoin, che sostanzialmente registra la prova di un pagamento, può essere visto come una versione primitiva di smart contract. Questi sono eseguiti su tecnologie blockchain, il che significa che i termini sono memorizzati in un database distribuito e non possono essere modificati. Teca digitale. Il termine teca digitale, spesso identificata come piattaforma di pubblicazione di collezioni di risorse digitali e per questo ambiguamente associata all’idea di digital library, indica un sistema in grado di acquisire, organizzare e archiviare risorse digitali multimediali e i relativi metadati gestionali. Un esempio di teca digitale è quello della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (http://digitale.bnc.roma.sbn.it/tecadigitale/). Trasformazione digitale. In ambito culturale, la trasformazione digitale non riguarda solo le tecnologie utilizzate, le tipologie dei prodotti e dei servizi offerti o le modalità di interazione adottate, ma investe in profondità il modo in cui si concepiscono le persone e le competenze nel contesto delle relazioni (Calveri et al., 2021). La trasformazione digitale delle istituzioni culturali è quindi un processo complesso, che abbraccia tutte le aree operative del patrimonio culturale (dalla logistica alla gestione delle collezioni, dalla formazione delle risorse umane al marketing e alla comunicazione, dal design dei servizi ai modelli di gestione, etc.). Essa consiste nel ripensamento delle logiche di lavoro, nell’innovazione delle modalità di interazione con i pubblici, nella creazione di nuovi modelli operativi all’interno dell’ecosistema digitale in cui la tecnologia è lo strumento abilitante del cambiamento. User-Centered Design. Con User-centred design, in italiano progettazione centrata sulle persone o design antropocentrico, si fa riferimento ad un metodo progettuale iterativo che pone al centro del progetto una o più tipologie di persone, definite personas, individuate come fruitrici principali di un prodotto digitale (applicazioni e siti web o mobile, software, ecc.). Il termine è stato proposto dagli studiosi Norman e Draper nel 1986 e si basa sull’assunzione per cui, se i progettisti terranno in considerazione le caratteristiche, le abitudini, le preferenze e il comportamento degli utenti, saranno in grado di progettare sistemi più semplici da usare. Secondo la definizione ufficiale, fornita dall’Organizzazione Internazionale per la Normazione con la norma ISO 9241-210 del 2019, questo approccio alla progettazione prevede quattro fasi di sviluppo, quali: 1. capire e specificare il contesto d’uso; 2. definire l’utente e le sue esigenze; 3. proporre soluzioni progettuali; 4. valutare le soluzioni da un punto di vista tecnico-funzionale e della user experience. User journey. Lo User journey, che in italiano è denominata “percorso dell’utente”, è una tecnica utilizzata in particolare nei modelli di business e di marketing per conoscere e riprogettare l’esperienza dell’utente con un particolare brand, prodotto o servizio, soprattutto nell’analisi dei processi di acquisto. Si considera e analizza l’intero percorso dell’interazione: da quando viene a conoscenza di un determinato oggetto digitale alle esperienze che può avere (Kokins at al., 2021). L’attenzione non è posta sulle transazioni, ma su come l’utente si sente dopo aver interagito con quel particolare oggetto. Dunque, lo user journey documenta l’intera esperienza di un utente per costruire e garantire la fruizione del prodotto digitale (che sarà dinamico e cambierà a seconda dell’utente). Sul Sistema Museale Nazionale (D.M. 113/2018), punto di approdo di un percorso almeno trentennale, cfr. http://musei.beniculturali.it/progetti/sistema-museale-nazionale ...
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italia
Bibliografia
Di seguito sono riportati i principali riferimenti bibliografici che hanno sostenuto la scrittura del PND; non sono pertanto esaustivi delle tematiche trattate né rappresentativi di tutti i punti di vista esistenti sulle materie prese in esame. Ulteriore bibliografia specifica è contenuta in appendice delle diverse Linee guida. Agrawal, D., Abbadi, A. E., Emekci F. Metwally, A. (2009). Database Management as a Service: Challenges and Opportunities, IEEE 25th International Conference on Data Engineering, pp. 1709-1716, doi: 10.1109/ICDE.2009.151. Amicucci, F. (2021). Apprendere nell’infosfera: Esperienzialità e nuove frontiere. Milano: Franco Angeli editore. Assmann, A. (2015). Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale. Bologna: Il Mulino. Atzeni, P., Mecca, G., Merialdo, P. (2002). Managing web-based data: database models and transformations, in «IEEE internet computing», VI, 4, pp. 33-37. Balzani, R. (2007). Collezioni, memorie locali, musei. 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