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5.4 Gli scenari di migrazione

5.4.1 Virtualizzazione

La virtualizzazione consiste nell’eseguire un’istanza virtuale di un sistema informatico attraverso un livello che astrae l’hardware fisico. Su un unico server fisico (host) è possibile eseguire più sistemi operativi con relative librerie e applicazioni. Questo meccanismo esegue i programmi in una macchina virtuale isolandoli da quelli eseguiti in un’altra macchina virtuale sullo stesso host.

La virtualizzazione permette di applicare la strategia di migrazione di Re-host (“Lift and Shift” ) indicata nella sezione 4.1.4. Questa strategia è particolarmente adatta a migrare un’applicazione legacy su una piattaforma cloud in quanto, invece di spostare progressivamente e separatamente nel tempo i componenti di un applicativo, sposta l’intero ambiente in un colpo solo, con tutto l’insieme di complesse dipendenze.

Le principali fasi di una migrazione Re-host sono:

  1. identificare le macchine virtuali da migrare
  2. identificare i prerequisiti come il sistema operativo che può essere supportato nel cloud computing (Linux o Windows)
  3. controllare l’elenco dei formati di immagine che sono supportati in cloud (formato raw, VHD, VMDK)
  4. per iniziare e condurre la migrazione, è necessario installare gli strumenti cloud-cli (command line interface), tipicamente forniti dal cloud provider, sulla macchina su cui risiedono le immagini di origine
  5. preparare le macchine virtuali ed esportare le macchine virtuali dal loro ambiente virtuale
  6. prevedere i tempi di downtime, informare tutte le parti interessate e pianificare temporalmente l’attività
  7. importare l’immagine della macchina virtuale in cloud e controllare lo stato dell’importazione. Una volta che l’importazione è stata eseguita correttamente, avviare le macchine virtuali in cloud e verificare lo stato dell’istanza

5.4.2 Containerizzazione

La containerizzazione è una strategia di virtualizzazione alternativa a quella tradizionale basata su hypervisor. che si basa su una serie di funzionalità di isolamento messe a disposizione dal sistema operativo ospitante.

Mentre nella virtualizzazione il sistema host emula completamente un nuovo sistema operativo e una serie di periferiche virtuali (disco, network, ..) nella containerizzazione si usano le funzionalità del sistema operativo per creare al suo interno un contesto di esecuzione separato (container) per uno o più processi; questo risulta in un utilizzo più efficiente delle risorse poiché non è necessario emulare un’intera macchina virtuale, ma il livello di isolamento è minore poiché i processi applicativi comunicano con lo stesso kernel.

La soluzione open source Docker offre una piattaforma di containerizzazione che può essere una alternativa più leggera agli approcci basati su hypervisor.

La metodologia tipica di delivery di un container si basa sul concetto di immagine, ossia un file contenente tutte le componenti applicative (files, librerie, ..) utili all’esecuzione dei processi associati al container; le piattaforme di containerizzazione mettono a disposizione degli strumenti per la creazione, la pubblicazione e la distribuzione delle immagini.

Questa modalità permette di evolvere i software con maggiore flessibilità rimuovendo ad esempio le dipendenze degli applicativi dall’infrastruttura di middleware: modificata l’immagine, viene istanziato un nuovo container indipendente dagli altri e che comunicherà con essi tramite API e protocolli rete.

I container funzionano su sistemi bare-metal, istanze cloud e macchine virtuali, su Linux, Windows e Mac, permettendo la portabilità di un’immagine da un sistema all’altro solitamente senza variazioni.

I container vengono spesso utilizzati per il deployment di microservizi ed in congiunzione ad uno strato di orchestrazione che si occupa di scalare separatamente il numero dei container associati ai servizi in funzione del carico applicativo della singola componente.

La containerizzazione offre una serie di vantaggi:

  • piattaforma multi-cloud: uno dei principali vantaggi dei container è che possono operare su diverse piattaforme di cloud provider, creando una piattaforma multi cloud
  • condivisione dello stesso sistema operativo: i container condividono lo stesso kernel del sistema operativo dell’host. Pertanto, i container possono essere più efficienti di una VM che richiede l’esecuzione di un sistema operativo separato
  • test e CI / CD: i container mantengono invariato l’ambiente di esecuzione di un’applicazione in tutti i suoi passaggi ad ambienti diversi come tipico per approcci di continuous integration e continuous deploy
  • portabilità: i container hanno una portabilità migliore rispetto ad altre tecnologie di hosting. Possono muoversi verso qualsiasi sistema. La configurazione del container è anche portatile in quanto è solo un file da condividere
  • versionamento: questa è una delle parti più importanti del ciclo di sviluppo del software. Docker offre il controllo della versione che semplifica il ripristino a un’immagine precedente se si interrompe l’installazione
  • costo: i container sono anche economici. Nonostante gli investimenti in memoria, CPU e storage, è possibile supportare molti container sulla stessa infrastruttura
  • velocità: i container girano più velocemente delle macchine virtuali, il che è molto importante per le applicazioni distribuite

I container consentono di suddividere le applicazioni in microservizi più piccoli e gestibili. Ogni microservizio è autosufficiente e può essere modificato e aggiornato da solo senza la necessità di toccare gli altri servizi. Ad esempio, se è necessario effettuare un aggiornamento, è necessario modificare e compilare solo i servizi interessati anziché ricompilare l’intera applicazione.

Kubernetes può essere utilizzato per gestire (tecnicamente detto “orchestrare”) questi singoli servizi. Per sfruttare tutti i vantaggi dei container e di Kubernetes, valutare le applicazioni legacy per capire se possono essere suddivise in moduli: non tutte le applicazioni legacy possono essere suddivise in moduli più piccoli.

I seguenti passaggi possono aiutare nella valutazione:

  • non aggiungere altro alle applicazioni legacy. Iniziare da zero, riscrivendo anche le applicazioni legacy nell’architettura dei microservizi, è sicuramente una scelta valida, soprattutto se è stata presa la decisione di adottare completamente i container
  • se le applicazioni legacy non possono essere scomposte in moduli, la cosa più semplice da fare potrebbe essere semplicemente racchiudere l’applicazione in un unico contenitore
  • la semplice suddivisione delle applicazioni in container non le rende automaticamente scalabili. È necessaria una pianificazione adeguata per determinare come devono essere eseguiti questi singoli container. Kubernetes crea container dentro a pod ed offre un DaemonSet, che è un modo automatico per creare pod di contenitori man mano che vengono aggiunti più nodi server. L’utilizzo di tali funzionalità per scalare con i microservizi deve essere considerato in anticipo

5.4.3 Ristrutturare l’applicativo

La ristrutturazione di un applicativo per renderlo più adatto a sfruttare le potenzialità delle piattaforme cloud può essere fatta a diversi livelli di profondità:

  • riducendo le dipendenze da sistemi esterni
  • sostituendo componenti con le versioni cloud native
  • riprogettando le strutture interne dell’applicativo e trasformandolo per assumere un’architettura più idonea ad un’efficace erogazione del servizio associato

Qualunque sia lo scenario che motiva la modifica a livello di codice sorgente dell’applicativo è opportuno seguire dei principi moderni di progettazione del software che aiutino quest’ultimo ad essere sempre più adattabile alle continue evoluzioni del bisogno degli utenti e del servizio associato.

In accordo con le linee guida definite dal Codice dell’Amministrazione Digitale e dal Piano Triennale, l’obiettivo è quello di sviluppare servizi che:

  • soddisfino le esigenze degli utenti/cittadini
  • siano facilmente manutenibili
  • siano capaci di evolvere in base alle esigenze dei cittadini e al progresso tecnologico
  • siano indipendenti da singole componenti architetturali di terze parti
  • diminuiscano le situazioni di dipendenza da un ristretto numero di fornitori (lock-in)

Affinché gli applicativi della Pubblica Amministrazione possano sfruttare i benefici del cloud è necessario che adottino principi di progettazione moderni per:

  • ottenere architetture in grado di sfruttare appieno le potenzialità delle piattaforme cloud
  • considerare le differenze rispetto alla situazione on-premise

5.4.3.1 Basso accoppiamento

Affinché gli applicativi della Pubblica Amministrazione possano sfruttare i benefici del cloud è necessario che adottino architetture moderne in linea con i principi secondo cui le piattaforme cloud funzionano.

Uno delle architetture meno adatte all’uso in cloud è l’architettura monolitica, in cui gli applicativi sono sviluppati e distribuiti come una singola entità e:

  • crescono in complessità (n. di dipendenze interne) al crescere della ricchezza funzionale
  • richiedono il test dell’intera applicazione per la verifica d’impatto di un cambiamento
  • scalano l’intero sistema in modo uniforme anche a fronte di carichi localizzati

Architetture monolitiche non si prestano allo sviluppo di applicativi complessi che devono evolvere rapidamente ed ottimizzare il consumo di risorse e costi rispetto ai carichi da gestire.

Gli applicativi con architettura multi-tier sono nati come evoluzione dei monoliti. Sono composti da diversi strati a livello di stack tecnologico, ad es. nel caso 3-tier: uno strato di dati, uno strato di logica di business e uno di interazione con l’utente con lo scopo di permettere una gestione separata dei livelli riducendo la complessità per ognuno di essi. Nonostante questa divisione, le applicazioni di questo tipo aumentano di complessità con l’aumento della ricchezza funzionale e presentano gli stessi svantaggi dei monoliti in termini di scalabilità.

Per superare i limiti di architetture monolitiche e multi-tier, si è cominciato a scomporre gli applicativi per funzionalità di business, considerandoli una collezione di servizi piuttosto che un unicum. Questo tipo di applicativi hanno un’architettura conosciuta come SOA (“Service Oriented Architecture”) che offre vantaggi in termini di:

  • scalabilità, in quanto ogni servizio può essere scalato indipendentemente dagli altri
  • gestione, in quanto le dimensioni ridotte di ogni servizio rispetto all’applicativo complessivo permettono un alto livello di controllo sul funzionamento o sull’impatto di un cambiamento
  • interoperabilità, in quanto ogni servizio espone un contratto (API) con cui altri servizi (interni o esterni) possono utilizzarlo

Architetture ancora più moderne rispetto a SOA sono quelle a microservizi e che utilizzano container. I vantaggi principali di queste architetture sono:

  • la definizione di componenti indipendenti e di dimensioni molto-ridotte (micro-servizi) che semplificano il lavoro di più team sullo stesso codice sorgente abilitando l’ownership a livello di micro-servizio, il controllo sugli impatti dei cambiamenti (testabilità), l’ammodernamento attraverso sostituzione di un micro-servizio obsoleto ed un processo di build più efficiente in quanto a livello di singolo micro-servizio
  • la definizione di interazione attraverso API RESTful che rendono la realizzazione dei micro-servizi non vincolata all’utilizzo di un unico stack tecnologico e rafforzano la capacità del team di sviluppo a lavorare in parallelo sullo stesso sistema
  • l’astrazione rispetto all’ambiente di run-time (container) che riduce le componenti cui l’applicativo dipende direttamente

I servizi si sviluppano e distribuiscono in modo indipendente e sono più facili da manutenere, correggere e aggiornare, garantendo funzionalità più agili per rispondere ai cambiamenti.

Per sfruttare appieno i benefici del cloud, gli applicativi monolitici o multi-tier devono evolvere verso (e i nuovi applicativi devono essere sviluppati con) architetture moderne, da SOA a microservizi.

Le architetture moderne sono caratterizzate da un basso accoppiamento, cioè una tecnica volta a massimizzare l’indipendenza tra i diversi componenti applicativi attraverso l’uso di API.

5.4.3.2 Design for failure

L’approccio “design for failure” richiede di progettare applicazioni in modo che un malfunzionamento dell’applicativo causi solo un degrado proporzionale alla funzionalità che non funziona ma non pregiudichi la fruizione nel complesso dell’applicativo. Secondo questo principio, devono essere rispettate precise linee guida per lo sviluppo e la gestione dell’applicativo:

  • sfruttare i meccanismi di fault-tolerance della piattaforma cloud (per approfondimento a riguardo vedi sezione 5.2.1.2 - Disponibilità)
  • utilizzare più zone di disponibilità (località fisiche separate offerte dal provider) per proteggere le applicazioni e i dati da eventuali guasti del datacenter
  • implementare una strategia di backup e ripristino costante e automatico
  • evitare di sincronizzare copie “in-memory” di grandi quantità di dati da uno o più storage centrali all’interno degli applicativi: scalabilità e ridondanza dei sistemi, sono possibili anche grazie alla facilità con cui è possibile creare e distruggere istanze replica dell’applicativo ed in caso di storage “in-memory” la creazione di un’istanza forzerebbe ogni volta una nuova ed onerosa sincronizzazione che impatterebbe a sua volta sulle tempistiche di restore del servizio
  • creare e manutenere immagini per macchine virtuali o container che contengano tutte le dipendenze necessarie agli applicativi così da mitigare errori nelle procedure di rilascio dovuti a possibili dipendendenze esterne non più soddisfatte
  • configurare un dashboard di monitoraggio che permetta di identificare il punto di malfunzionamento in caso di fallimento o problema di performance